Per millenni il corallo rosso del Mediterraneo occidentale è stato pescato da Romani, Arabi, Catalani, Provenzali, Italiani utilizzando semplici attrezzi. Tronchi di legno singoli o a croce chiamati "Ingegni", zavorrati da pietre e con attaccati lunghi brandelli di reti da pesca, fatti strisciare sul fondo o lungo le pareti rocciose per strappare i preziosi rametti rossi. Lo abbiamo visto nell'articolo precedente. Passano i secoli e i sistemi cambiano ma oggi come allora si raccoglie ancora il corallo. Solo che da alcuni decenni andiamo a staccare i rametti uno per uno direttamente sul fondo, un sistema di raccolta per la verità non del tutto nuovo, infatti si hanno notizie di pescatori In epoca Romana che scendevano in apnea per strappare il corallo con un attrezzo a forma di uncino seghettato. Poi vi furono vari tentativi nel 1700 di pescatori calati sul fondo con una campana aperta e più tardi, con l’avvento dello scafandro da palombaro, di vere e proprie battute al corallo rosso, soprattutto da parte di palombari Greci.
I limiti di questi sistemi antichi erano nella profondità, difficilmente si poteva scendere oltre i 30 metri. Poi nel 1946 arrivò l'erogatore di Cousteau-Gagnan ed il passaggio all'autorespiratore per alcuni fu rapido, anche se le attrezzature, le cognizioni tecnologiche e fisiologiche erano ancora primordiali. Chi vi si dedicava in quegli anni doveva inventarsi o modificare ogni giorno le attrezzature che poi avrebbe usato, ma quando ci si rese conto che con l'Ara si poteva scendere nella miniera di oro rosso in fondo al mare, sostituendo l'antico "Ingegno" con le proprie mani, ecco che molti si dedicarono a questa attività. Si formò una casta di avventurieri spinti sia dai possibili guadagni che dalla ricerca di emozioni sconosciute, personaggi con uno stile di vita unico che diedero inizio a quella che sarebbe stata ricordata come l'"epopea dei corallari". Tutto a quanto pare iniziò a Capo Palinuro ad opera di un istruttore del Club Méditerranée, il francese J. P. Broussard, e di Leonardo Fusco. Nelle acque campane saranno seguiti subito dopo da Alberto Novelli, Ennio Falco, Claudio Ripa e da Guido Garibaldi e Fausto Zoboli in quelle Toscane e Liguri, mentre altri gruppi si formarono in Spagna e in Francia. In quel periodo, siamo nei primi anni "50 del 1900, le profondità non erano ancora ragguardevoli e il corallo si trovava a quote anche inferiori a 30 metri. L’attrezzatura era semplice, oltre a quella di base comprendeva un bibombola caricato a 150 bar, un erogatore a due tubi, la picchetta o "maleppeggio", un piccolo pedagno e un "coppo", ossia una cesta di paglia o di rete tenuta aperta da un ferro circolare. A volte si indossavano dei vecchi maglioni per proteggersi sia dal freddo che dai sicuri strusciamenti con il fondale, mentre il profondimetro non sempre era presente e nemmeno l’orologio. I valori di profondità venivano rilevati tramite uno scandaglio a mano calato dal barcaiolo, mentre il momento della risalita lo indicava l'erogatore quando iniziava a indurirsi per il calo di pressione nelle bombole. Per l'autonomia e il tempo si faceva un semplice calcolo. Si moltiplicava per due la quota fornita dallo scandaglio, poi si aggiungeva il valore fisso 20 pari al consumo/minuto; infine si divideva il volume dell’aria contenuta nelle bombole per il risultato ottenuto. Esempio: immersione a 40 metri con un bibombola da 10 + 10 litri a 150 atmosfere, contenente quindi 3000 normal-litri d'aria; il consumo sarà allora 40 + 40 + 20 = 100 litri al minuto. Dividendo i litri nel bibombola con i litri del consumo ricaviamo il tempo d’immersione, ovvero 3000 : 100 = 30 che corrispondono ai minuti d’immersione concessi al nostro corallaro.
Per quanto riguarda la decompressione le conoscenze presso i sub erano veramente ai minimi, pertanto veniva fatta in una forma non ben definita dove ognuno ci metteva del suo. In quel periodo la voglia di corallo spinge molti a cercare fortuna verso posti ritenuti più redditizi ed è ora che inizia la corsa al corallo sardo. Leonardo Fusco, Ennio Falco, Claudio Ripa approdano ad Alghero e più precisamente a Capo Caccia, dove trovano corallo in abbondanza fin dalle basse profondità. In quegli anni si ha pure la prima vittima della "febbre dell'oro rosso", muore Guido Garibaldi. Quando fu recuperato assieme al cestello e al maleppeggio indossava solo un maglione di lana spessa tutta infeltrita. Dopo le esperienze dei pionieri, la maggioranza dei corallari si concentrerà alle Bocche di Bonifacio con base a Santa Teresa di Gallura. In quelle acque si trova infatti un corallo che a Torre del Greco, capitale mondiale del mercato corallino, viene pagato al prezzo di gran lunga più alto. È un corallo rosso scuro (con qualche eccezione rosa), massiccio, sano, raramente «camolato», di elevato peso specifico e a lungo fusto anziché a cespuglio come quello Spagnolo o Ligure, eccellente per la lavorazione. I rami medi possono pesare fino uno o due etti, i rami grossi mezzo chilo; rami eccezionali raggiungono il chilo.I nuovi arrivati si trovarono a dover risolvere alcuni problemi legati alle caratteristiche dei luoghi, con immersioni molto più profonde di quelle prima abituali e da effettuare in mare aperto, spesso spazzato da forti venti e correnti, da onde impetuose. Le barche dovevano quindi essere almeno di una decina di metri, stabili ma veloci e dotate di ecoscandaglio. Una delle prime cose diventate di normale impiego fu la muta, spesso indossandone due, una sopra l’altra, per proteggersi meglio dal freddo delle lunghe decompressioni; poi bombole di maggiore capacità caricate a 200 bar grazie ai nuovi compressori. Molti usano ora almeno l’orologio, mentre il profondimetro è considerato ancora da parecchi superfluo, visto che la profondità a cui ci si immerge la dà l'ecoscandaglio. Per la quota di decompressione si fa riferimento a una cima zavorrata calata dalla barca con segnati i diversi livelli di sosta. Comincia a farsi strada l'idea di un secondo erogatore, da poco sono arrivati quelli piccoli a singolo tubo, quasi in contemporanea alle mute di neoprene espanso.
Fig. 8 - Estratto tabelle ad aria del GERS del 1965, oggi non ammesse in quanto considerate troppo pericolose |
Ma mentre queste ultime si dimostrano immediatamente valide, i primi sono lontanissimi dall'avere le prestazioni e l'affidabilità dei cugini a due tubi, questi ultimi però impossibili da assemblare in coppia, per cui si dovrà ancora aspettare un bel po' prima che l'idea sia realizzabile. Una questione della quale ci si accorse subito era la necessità della torcia subacquea, fissata sulla testa o al braccio che tiene il coppo, divenuta indispensabile per vincere la semioscurità delle alte profondità ed il buio totale di anfratti e grottine. Nello stesso tempo, per rendere più confortevoli le lunghe decompressioni, sulle barche vengono installati dei sistemi che permettono di fornire acqua calda al sub. L'acqua arriva tramite una manichetta da infilare sotto la muta o tra le due mute sovrapposte, calata con una cima zavorrata. Una particolarità è che date le profondità non si indossa più la zavorra, sostituita da alcune pietre messe nel coppo per essere tolte dal sub durante la discesa. Per quanto riguarda l'organizzazione dell'immersione non cambia molto, i corallari per una regola non scritta ma dettata dall’esperienza preferiscono quasi sempre immergersi da soli, a turno se sono in équipe. Ciò che conta veramente dal punto di vista della sicurezza è infatti il marinaio che deve seguire il corallaro senza perderne mai di vista le bolle e intervenire all'arrivo in superficie del pedagno per organizzare la decompressione. Quest'ultima prevede ormai delle procedure consolidate grazie alla maggiore consapevolezza dei problemi fisiologici ed alla diffusione delle tabelle di decompressione, pur se queste sono considerate più che altro una traccia da interpretare con criteri personali. Come sempre in questo mondo tanto particolare le innovazioni vengono accettate non tanto per raggiungere un livello di sicurezza superiore, quanto per le possibilità offerte di raggiungere un allettante maggiore guadagno, che in questo caso sta sempre più in profondità. Ed ecco apparire alla metà degli anni "60 i primi tribombola.
l gruppo era solitamente formato da un erogatore a due tubi o dall'innovativo Pirelli Explorer Standard e da due bombole da 12 o 15 litri con riserva, più un cinque o dieci litri con applicato un erogatore a singolo tubo che alcuni, dotati di qualche conoscenza in più, invece della solita aria caricavano a ossigeno. Infatti uno studio del dott. Gaspare Albano diceva che i tempi di decompressione respirando ossigeno puro potevano essere accorciati di quasi il 50 per cento, mentre per la Marina francese era il 40 per cento. Negli anni "60 compaiono sulla scena anche il manometro a frusta e il decompressimetro della Sos, mentre le barche cambiano diventando sempre più grandi e comode, tanto che sulla sua Leonardo Fusco fa installare una camera iperbarica. Un'altra grande innovazione è l’introduzione di sistemi di sostentamento sia del coppo che del subacqueo. Per il coppo si comincia a usare un secchio rovesciato riempito d’aria, mentre per equilibrarsi in profondità si utilizza un sacchetto di tela gommata legato al secondo stadio di un erogatore a singolo tubo, immettendovi l'aria necessaria. In seguito, su suggerimento del comandante Bucher, verrà pure utilizzato come ascensore per portare il sub alla quota di decompressione senza pinneggiare. Naturalmente il gav ancora non c'era. In questo periodo nasce pure una terminologia tutta tipica del corallaro, atta ad indicare vari punti o tipicità del fondale. Piccoli massi isolati su un fondo pianeggiante o in lieve declivio sono definiti «Scoglietti»; monoliti dalla struttura di guglie dolomitiche, alti una decina di metri, prendono il nome di «Spicarielli»; pareti rocciose che cadono con salti di 5-15 metri su un secondo fondale a tavoliere vengono chiamate «Pettate»; gli scoscendimenti molto ampi, a terrazze, che spesso orlano le ultime propaggini di un canyon sottomarino e possono condurre a profondità elevatissime sono le «Scalomate». Un tratto di fondo dove si è già passati diventa una "Ripassata", così la zona dove si è raccolto il corallo per la seconda volta è una "Macchia". Giunti a questo punto vediamo come si svolgeva l’immersione. I corallari si immergevano regolarmente ad aria a 80-90 metri ed a tali profondità i tempi di permanenza sono forzatamente limitatissimi a causa del consumo, attorno ai 15-20 minuti. Una volta completata la vestizione con l’aiuto del marinaio, il sub salta in acqua armato di quanto serve per il lavoro. La discesa inizia abbastanza lenta per poi diventare sempre più veloce ed ecco che inizia a togliere qualche pietra dal coppo per alleggerirsi, finché non giunge sul fondo dove scarica tutta la zavorra. Se è fortunato inizia subito a picchettare e a far cadere rami e rametti nel coppo, che equilibrerà con l’immissione di aria in un secchio rovesciato o in una tanica aperta sul fondo.
Terminato il tempo per la raccolta, se reputa che il sito sia ancora redditizio lancia il pedagno per fissare il punto della prossima immersione e inizia la fase più delicata, ovvero la risalita. Può eseguirla in due modi, pinneggiando o usando come visto sopra un sacchetto di tela gommata come ascensore. In ogni caso fa attenzione a non superare mai la velocità delle sue bolle, poi giunto ai 30 metri lascia andare il sacchetto e di colpo si ferma. A questo punto il marinaio, avendo avvistato il sacchetto, si porta sulla verticale e cala un nuovo gruppo bombole con una cintura di zavorra che il corallaro deve indossare, quindi la manichetta dell'acqua calda, una cima per recuperare il coppo, una lavagnetta con una matita per comunicare durante la lunga sosta. Ora inizia la decompressione, che molti conducono seguendo lo schema seguente. Prima immersione tra i 75 e gli 80 metri, permanenza sul fondo di 15 minuti, risalita ai 30 metri. Qui cambio bombole e risalita molto lenta fino a 18 metri, poi soste ai 18,15,12,9,6,3 metri per circa 40 minuti di tempo totale, prediligendo un tempo di sosta maggiore ai 9 o 6, metri per risentire meno del moto ondoso. Chi invece usa l’ossigeno nell'ultima parte della decompressione, lo sostituisce all'aria intorno ai 12 metri decurtando i tempi previsti di circa la metà, preferendo sempre la sosta maggiore a 9 o 6 metri. L'intervallo tra le immersioni è generalmente di tre ore, con tempi medi di decompressione di sessanta minuti per la prima e novanta per la seconda, valori che in determinati casi vengono addirittura raddoppiati. Considerato che nei luoghi dove i corallari svolgevano la loro attività la presenza di impianti iperbarici era a quei tempi molto rara, in caso di "pizzicata", come venivano chiamati i sintomi lievi di una Mdd (malattia da decompressione) di tipo 1, in genere eseguivano un secondo trattamento decompressivo in acqua.
Purtroppo gli incidenti più o meno gravi derivanti da questa corsa all'oro rosso cominciano a farsi pesanti, le profondità alle quali si opera sono sempre maggiori e ritrovarsi a picchettare a novanta o cento metri è abbastanza frequente. Tanto che tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta si registrano due decessi illustri. Nel 1969 muore Ennio Falco, mentre nel 1973 è la volta di Cesare Olgiay, così del più famoso gruppo di corallari del mediterraneo ora rimaneva solo Alberto Novelli. Visti i tanti incidenti che continuano a susseguirsi, tra la comunità dei corallari si inizia a prendere coscienza che la responsabilità è si della profondità sempre più elevata alla quale si opera, ma come principale imputato viene finalmente individuata l’aria, che se respirata a forti pressioni diventa tossica. Il periodo che ne segue vede l’affacciarsi in questo mondo dei primi utilizzatori di miscele sintetiche elio-ossigeno. Nonostante i corallari non siano mai stati avvezzi alle complicazioni, l’approccio è di livello professionale, frequentando corsi specifici (e costosissimi) presso ditte specializzate quali la Comex. Questa rivoluzione è stata possibile grazie alla capacità di alcuni di cambiare mentalità, primi tra tutti Leonardo Fusco, Fausto Zoboli, Giovanni Ascione e pochi altri, ma soprattutto è avvenuta perché si stava verificando un salto generazionale. Si è fatta strada una schiera di giovani, quali Antonio Murru, Tore Lai, Mario Bulciolu, Piero Capula ed altri che opereranno per i successivi quaranta anni, fino all'inizio del nuovo millennio. Nel primo approccio alle miscele sintetiche il corallaro non ha cambiato di molto la sua tecnica d’immersione, ora però si devono assolutamente rispettare alcune regole, quali l'effettuare la decompressione in ossigeno. E si deve soprattutto avere un sistema in grado di caricare con le miscele le bombole che sono aumentate ancora di volume e di numero, fino a cinque.
Prima di continuare il nostro viaggio in questo mondo tanto particolare, è indispensabile sottolineare il diverso approccio alle miscele rispetto a quanto avviene oggi nell'ambiente tecnico-amatoriale. Innanzi tutto il corallaro usava un'unica miscela di fondo ed una tabella alquanto flessibile valida per un arco di profondità molto esteso, dato che non sapeva a quale quota esatta avrebbe trovato quanto cercava, se ai 70 metri segnati dallo scandaglio o forse poco più in là in un anfratto a 90 metri. Molto diverse anche le metodologie decompressive adottate dai primi anni "80 fino almeno alla fine del decennio successivo.
Vediamo allora la decompressione-tipo del corallaro immerso con una miscela Trimix. Si stacca dal fondo lentamente e inizia la risalita, a -60 metri lancia un pedagno per informare il marinaio della sua posizione. Poi tutto procede come abbiamo visto in precedenza, salvo che ora a quota -50 abbandona la miscela, passa a respirare aria dal bibombola calato dalla barca e fa la prima parte della decompressione, risalendo per gradi. Giunto ai 15 metri inizia a respirare ossigeno dalla manichetta calata dal marinaio, seguendo i tempi della tabella specifica fino al momento di uscire dall'acqua. In barca respira ancora ossigeno per almeno 30 minuti senza eseguire sforzi di nessun genere, stando attento a qualsiasi sintomo da Mdd dovesse farsi sentire. In alternativa a questa procedura può seguire il sistema della decompressione in superficie, chiamato "salto". In tal caso alla quota di 30 metri passa a respirare una miscela nitrox da una bombola calata dalla barca, si toglie il bibombola che il marinaio recupera con una cima, risale nei tempi determinati fino ai 12 metri dove passa all'ossigeno. Concluse le tappe previste esce dall'acqua e in barca continua con l'ossigeno svestendosi rapidamente per entrare nella camera di ricompressione installata a bordo. Questa viene pressurizzata alla quota di 12 metri, poi la decompressione si svolge come da tabella, spesso personalizzata.
Fig. 18 - Estratto di una tabella trimix in uso tra i corallari italiani per decompressione in acqua nel 1983 -1985 | Fig. 19 - Estratto di una tabella trimix in uso tra i corallari còrsi per decompressione in barca nel 1987-1990 |
Naturalmente le tabelle riprodotte in queste pagine oggi sono considerate pericolose e assolutamente vietate da qualsiasi agenzia.
Se l'avvento delle miscele portò molti ad abbandonare il mestiere a causa di quanto si rese necessario in tema di nuove attrezzature da acquistare e vecchie abitudini da cambiare, qualcuno al contrario non si fermò lì e intraprese la via di un'ulteriore evoluzione. Ed ecco che Leonardo Fusco, già precursore con le miscele, a metà anni "70 sperimenta un rebreather, un Dräger Fgg III a circuito semichiuso da lui modificato che in breve utilizzerà regolarmente. A spingerlo verso questa scelta era stata in particolare la constatazione che con 5 bombole sulle spalle la capacità di movimento sott'acqua era arrivata al limite.
Sulla stessa strada si misero poco dopo la coppia Antonio Murru e Mario Bulciolu, ma per la grande maggioranza i corallari restarono fermi al circuito aperto, più facile e semplice da gestire. Intanto la corsa all'oro rosso ha una nuova impennata con la scoperta di corallo in quantità al Banco Skerki, in pieno canale di Sicilia. Verso questo eldorado nei primi anni "80 si riversano sub esperti e corallari improvvisati, facendo base a Trapani ridiventata per qualche anno capitale del corallo come nel lontano passato.
Dal punto di vista tecnico-organizzativo sembra si sia a un punto d'arrivo, si sono imposte le miscele Trimix e ormai le barche hanno tutte la camera di ricompressione, essendo diventata la prassi il terminare la lunga decompressione a bordo. Il decennio successivo registra una sostanziale continuità, i corallari si sono sparsi in Algeria, Tunisia e altrove ma la base principale resta S. Teresa di Gallura. Le loro barche inconfondibili la sera formano una lunga fila, ormeggiate ai lati della più grande e famosa di Antonio Murru. Si inizia a pensare all'utilizzo di minisommergibili e robot, mezzi subito stoppati dalle nuove normative. Agli inizi degli anni 2000 in questo mondo bussa alla porta un'ulteriore possibile rivoluzione, alimentata dall'ingresso in ambito sportivo dei rebreathers elettronici a circuito chiuso. Tuttavia il metodo d’immersione di un corallaro poco si addice alla rigidità di un apparecchio che per sua natura ha bisogno di attenzioni e regole particolari, di conseguenza pochi lo adottano. Il corallo nel frattempo è molto meno ricercato di un tempo, è passato di moda, ed a questa constatazione si sommano le difficoltà burocratiche ed i costi gestionali diventati altissimi. Le conseguenze di un tale stato di cose sono inevitabili, i corallari in attività risultano sempre meno e la pratica millenaria di raccogliere i rametti rossi offerti dal mare sembra avvicinarsi al tramonto.
Dal film-documentario "I corallari di Corsica" di Jacques Yves Cousteau 1963
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